In occasione dell’inaugurazione di “Artificio naturale” – la scultura ambientale di Paolo Icaro acquisita nella collezione della Pinacoteca Civica Bruno Molajoli di Fabriano – abbiamo avuto il piacere di porre alcune domande all’artista.
Icaro ci ha offerto riflessioni e confessioni che aprono una finestra sul suo mondo interiore. Le sue parole ci aiutano a comprendere la sua visione della scultura come manifestazione fisica dell’idea, il dialogo tra naturale e artificiale che pervade l’opera, e il suo approccio all’utilizzo di materiali come la pietra e la carta.
Più che risposte dirette, le sue considerazioni si rivelano frammenti di una poetica in costante evoluzione, in sintonia con la natura aperta e interrogativa della sua arte.
Il progetto, a cura di Marcello Smarrelli, promosso dal Comune di Fabriano e realizzato in collaborazione con la Fondazione Ermanno Casoli, è sostenuto dal PAC2022-2023 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
- Nel tuo percorso artistico hai sempre sperimentato materiali e processi diversi, come nasce la tua riflessione sulla scultura e sulla sua relazione con lo spazio?
La Scultura dà corpo all’Idea, la fa esistere nello stesso spazio dell’Uomo. L’idea, messa a fuoco, sceglie il materiale più adatto per venire al mondo.
- “Artificio naturale”, la tua opera che sarà inaugurata a Fabriano, sembra esplorare il confine tra naturale e artificiale. Cosa significa artificiale per te e come si è sviluppata l’idea di questa installazione?
La pietra levigata dall’acqua nel torrente è Natura.
La pietra fatta di argilla, modellata e levigata da me è Artificio.
- Hai affermato che la scultura è “uno spazio aperto, percorribile e misurabile dallo spettatore”. Come desideri che il pubblico interagisca con questa opera collocata nei Giardini del Poio della Pinacoteca Civica Bruno Molajoli a Fabriano?
Le cinque pietre di “Artificio naturale” stanno in cinque posizioni di equilibrio differenti e sembrano cinque pietre diverse. Abitano lo spazio dello spettatore che cammina fra loro per vedere meglio e scorgere che non sono solo somiglianti, ma in effetti sono identiche: sono cinque repliche di una stessa pietra.
- Nel corso della tua carriera, il rapporto con la pietra è cambiato, passando da un iniziale distacco a una successiva riscoperta. Cosa ha determinato il ritorno a questo materiale e come si inserisce la pietra nel tuo dialogo con lo spazio?
Nel corso della mia vita i rapporti con le idee e i loro possibili corpi sono stati in continuo naturale cambiamento.
Le idee lapidee mi sono arrivate solo quando ho incontrato le pietre; le prime pietre le saltavo da ragazzo nel greto del torrente.
Le pietre: ciò che la montagna dice di sé, negli anni, nei secoli.
(“Le pietre del cielo”, nel canto di Neruda, mi accompagnano.)
- Siamo a Fabriano, città della carta. Nel tuo lavoro, la carta emerge come un materiale significativo in diverse opere. Come esplori e utilizzi la carta nel tuo processo creativo?
Per me la carta è soprattutto un umile ma molto nobile materiale, una superficie tridimensionale non superficiale, ha una polpa e una struttura interna da scoprire.
È un luogo per meditare.
L’ho usata per disegnare scrivere con la punta della matita e della penna, ma l’ho anche graffiata, scolpita, strappata, brunita e bruciata, piegata e ripiegata, imprigionata e liberata: l’ho tagliata e cucita, appallottolata e poi scagliata.
Nell’attesa, l’ho ammirata, rispettata, poi anche bistrattata, macchiata dipinta colorata, incollata inchiodata compressa, accarezzata e, se velina, con le labbra suonata, poi leccata, fumata, poi oltre, basta!!!
Per ogni verbo c’è un’opera mia, insieme con la carta, realizzata.